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La missione “Ad Gentes” in Dom Adrien Gréa e la comunità CRIC in Brasile


"Dans les pays de mission, on ne fait pas le principal, même quand les missions sont fleurissantes, si la vie hiérarchique ne s'organise pas avec les indigènes. Il y a entre la mission et une église constituée la différence d'une fleur parfois magnifique et mise dans un vase avec la fleur moins brillante, peut-être, mais enracinée... Il faut faire un clergé indigène régulier et hiérarchique, mais pas avec la méthode sulpicienne, car avant de faire un Monsieur de St. Sulpice, il faut commencer par faire un européen... Ne cherchez pas à faire des Européens. C'est vous qui, comme St. Paul, devez vous faire Chinois, Japonais, "Omnia Omnibus". Mangez comme eux du riz à l'huile de ricin ou des boulettes de farine comme les Arabes. Construisez des maisons comme le leurs. Est-ce que St. Paul, St. Denys ont cherché à implanter la civilisation romaine chez leur peuples? St. Martin et d'autres sont plutôt devenus moins barbares que séculiers européens. Non, ne l'amenez pas en Europe votre nègre intelligent qui va y mourir poitrinaire. Gardez-le trente ans dans la vie monastique ou canoniale, dans la pratique des observances régulières et à l'abri de la vie commune. Et après cela, ordonnez-le prêtre en le laissant religieux. Multipliez l'opération et vous aurez un vrai clergé".


Dalla Lettera del 30.6.1903 di Dom Gréa all'amico M. Delpech; citazione di P. BROUTIN, L'Idée de Dom Gréa, in NRT 4(1939) 478-479.


Nei paesi di missione, Dom Gréa suggerisce di fare la “cosa principale”: organizzare la vita gerarchica con i propri indigeni. La missione può essere fiorente, ma se non si preoccupa di dare vita ad un clero locale, ad una chiesa locale può correre il pericolo di diventare una imposizione culturale, importata da fuori. Peggio, trattandosi di congregazioni, può essere una nuova “tratta di schiavi” in vesti moderne, ma non meno colpevoli. Andare in missione per “riempire” i conventi vuoti dell’Europa non è senz’altro compiere il comandamento del Signore: “andate ed annunciate a tutti i popoli la Buona Novella”.
Dom Gréa usa un’altra analogia, fantastica e delicatissima: “Tra la missione e una chiesa costituita c’è la differenza di un fiore forse magnifico, collocato in un vaso con un fiore meno appariscente, forse, ma radicato…” Quanto è vera questa verità e come valorizza la “verità” locale della missione: un fiore che abbia le sue radici ha più vita, più senso, più dignità che un fiore sradicato e trapiantato fuori dal suo humus.
“Bisogna fare un clero indigeno regolare e gerarchico, ma non secondo il metodo sulpiciano, perché prima di fare un Monsignore di St. Sulpice, bisogna iniziare a fare un europeo… Non cercate di fare degli europei… Nel 1903 Dom Gréa ebbe il coraggio di scrivere questo, in piena epoca in cui molte congregazioni religiose europee si lanciarono alla missione, senza dubbio motivate da fini nobilissimi (annunciare il vangelo) ma, purtroppo, ancorate alla zavorra ideologica e culturale di “esportazione” delle forme e dei modelli della cristianità europea.
Basta vedere un po’ più da vicino la storia di tante congregazioni per constare l’“insuccesso” del metodo del cristianesimo esportato. Lo stesso vale per i proprio figli di Dom Gréa: quanti nostri padri francesi si “immolarono” nelle missioni del Canada e del Peru; ma viene spontanea la domanda: si preoccuparono di far nascere un clero locale? Certamente si preoccuparono, ma forse, proponendo modelli culturali europei. Evidentemente, i frutti non furono quelli sperati.
Ed è il rischio che corriamo tutt’oggi. Continuiamo la lettura di Dom Gréa.
Dovete essere voi, come S. Paolo, che vi dovete fare Cinesi, Giapponesi, “Omnia Omnibus”. Mangiate come loro del riso all’olio di ricino o delle palline di farina come gli Arabi. Costruite case come le loro. Forse che S. Paolo e St. Denys hanno cercato di impiantare la civilizzazione romana presso i loro popoli? S. Martino e altri sono divenuti meno barbari piuttosto che secolari europei.
Ecco ciò che oggi teologi, missionari, Magistero della Chiesa chiamano “inculturazione”: il missionario scopre nella cultura locale, sotto forme proprie, lo stesso Vangelo. Quindi non si tratta di convincere l’africano a farsi la casetta all’italiana e nemmeno di fare cantare all’indio dell’Amazzonia l’Adeste Fideles il giorno di Natale. Non si discute la bellezza del canto gregoriano, si obietta la pretesa di volerlo come unica forma del canto liturgico in ogni parte del mondo.
Qualcuno potrà dirmi che tutto questo è pacificamente superato, già che il Concilio Vaticano II riportò la liturgia alle lingue autoctone. E’ vero, ma solo in parte. Se passiamo al campo della morale, del governo, dentro la Chiesa, come siamo lontani da una vera inculturazione. Una cosa è scimmiottare un Vangelo cantato alla moda gregoriana e così altre parti della messa, altro è esprimere, celebrare lo stesso mistero della fede nella cultura propria del luogo… Celebrare non è indulgere alla teatralità, ma fare “anamnesi” del Signore Gesù.
Direi che è imperativo celebrare insieme, non solo ripetere gesti, è imperativo “far parlare” i simboli da se stessi e abbandonare la mania di “spiegarli”. Simbolo spiegato, oppure simbolo che non dice più niente, non serve a nessuno.
Ho ancora la chiara sensazione che anche qui in missione si stia “impiantando la civilizzazione romana”. Perciò il nostro sforzo di entrare nella mentalità di questa gente, di dire la vita con le loro parole e di
celebrarla con i loro riti e miti. La propria Parola di Dio, il suo stesso Verbo, non hanno potuto fare a meno della mediazione umana e di un popolo tra i tanti su questa terra.
“No, non portate in Europa il vostro negro intelligente, perché vi morirebbe pancione. Tenetelo trenta anni nella vita monastica o canonicale, nella pratica delle osservanze regolari e al riparo della vita comune. E dopo sì, ordinatelo sacerdote, lasciandolo religioso. Moltiplicate l’operazione e avrete un vero clero.”
Ecco perché abbiamo preferito tenere i nostri seminaristi qui in Brasile. Senz’altro non hanno le famose e dotte università pontificie romane in cui studiare. Non hanno le risorse di cui dispongono i loro fratelli in Europa. Addirittura, i nostri lavoravano la terra, mungevano le mucche, ecc... Certamente non è questa particolarità che li ha resi più o meno degni, preparati o no, più bravi o meno bravi. Se vogliono essere un giorno sacerdoti “con” questa gente, non possono dimenticare la vita della gente, una vita molto più vulnerabile da una parte e, dall’altra, molto ricca di fede.
Nelle situazioni attuali è ancora visibile la ricerca del seminario come “status” di vita più che sequela di una vocazione. Questo fa emergere che, dopo tutto, il seminario è ancora un luogo di fate, dove la vita è garantita, lo studio è gratuito, ecc. Perciò abbiamo cercato di far capire ai nostri seminaristi di tenere i piedi per terra e non dimenticare le loro radici. Così come noi missionari europei, faremmo un grande sbaglio a dimenticare le nostre radici: sarebbe l’altra faccia della medaglia dell’esportazione di un modello culturale di Vangelo. Con la sana volontà di “svuotarsi”, possiamo perdere il vero senso di una “kenosis”, intesa come assenza di orgoglio e mania di potere, cioè, vissuta come servizio e donazione. Ogni cultura ha molto da offrire. E l’integrazione reciproca evita l’orrore dell’attuale e voluto “scontro di culture”. Senza dimenticare la globalizzazione, con tutte le sue ambiguità: globalizzare lo sfruttamento della povertà concentrando la ricchezza nelle mani di pochi. Il Vangelo è radicale, non scende a facili compromessi di interesse individuale.
La missione vuole che comprendiamo il ritmo di questa gente, che possiamo camminare con lei, insieme. Ogni popolo e cultura ha pregi e difetti. Quindi non si vuol demonizzare né ostentare santità impossibili, ancor meno perdere tempo in diatribe sterili, proprie di chi ritiene “unico e assoluto” il “suo” modo di vivere o di interpretare il Vangelo.
Ciò che mi dà gioia è constatare che il pensiero di Dom Gréa a rispetto della missione lo ritroviamo nella bellissima Evangelii Nuntiandi
di Paolo VI. Pensiamo ai Bartolomeo de las Casas, ai Montesinos, ai José de Anchieta, veri apostoli latinoamericani; gira e rigira non ci vuole molto per capire la missionarietà della Chiesa: basta avere l’umiltà di aprire gli occhi. E ci sono ancor oggi i Tomás Ortis alleati ai Pizzarro che usano l’ideologia religiosa per imporre, ipocritamente, il dominio sui più poveri.
Alla nostra comunità CRIC qui in Brasile resta ancora molto cammino da fare. Non sono mancati i peccati di non testimonianza di amore fraterno, come del resto ci ha unito e ci unisce tutt’ora il desiderio di vivere l’ideale canonicale propostoci da Dom Gréa. E’ evidente che il nostro ritmo di qui sia differente, lo stesso modo di pregare, di vivere la pastorale nelle nostre comunità ecclesiali. Lo stesso Dom Gréa, non giustificava forme fine a se stesse per alleggerire le norme di vita nelle comunità canadesi, ma come buon padre, saggio, permetteva, perché capiva, il modo di vita e di testimonianza dei suoi missionari, mitigando alcune regole. Lo stesso vale per noi qui in Brasile.
C’è chi ha interpretato la nostra presenza CRIC in Brasile come una disobbedienza, come una velleità personale del sottoscritto e di coloro che hanno condiviso questa scelta. Ciò che gli altri pensano ci interessa, ma non può condizionare il nostro sogno: fondare una comunità CRIC in Brasile. Perché è di questo che si tratta. Non siamo venuti in mezzo ai poveri esclusivamente per “rifocillarci” di vocazioni, solo per far fronte alla carenza vocazionale europea. Ci interessa far nascere dei CRIC brasiliani, come altri Canonici Regolari hanno già fatto, per esempio, i Lateranensi.
Siamo qui in missione, per lasciarci evangelizzare dai poveri, la cui vita denuncia la disumanità di una ideologia economica imposta ai paesi in via di sviluppo. E’ terribile notare come vengono sacrificate tantissime vite umane per causa del dio denaro, della bramosia dell’avere, del concentrare ricchezza. Evidentemente la chiesa vissuta dai poveri ha il suo impatto su di noi, tradotto poi in termini di ricerca del necessario e abbandono del superfluo, di maggior semplicità e autenticità. Il che non vuol dire fare i pezzenti o non curarsi anche dei luoghi di culto. In tutto ci deve essere dignità, segni efficaci, direi, mistagogia, del Regno di Dio.
Come figli di Dom Gréa amiamo la liturgia, anche qui intesa non come una anacronistica ostentazione di riti del passato, bensì come espressione di una delle caratteristiche fondamentali della persona umana: la celebrazione, la capacità di cantare la vita, richiamando sempre il mistero pasquale come centro della nostra esistenza. Non importa se si celebra in una basilica o sotto un albero: questi sono mezzi. Il fine è celebrare la gloria di Dio. Sant’Ignazio di Antiochia ci ricorda che questa gloria di Dio è la persona vivente, cioè ogni essere umano. Il vangelo di Giovanni ci dice che il tempio, con Gesù, è la persona umana: è questa la vera casa dell’Altissimo. A volte sono celebrazioni con grandi moltitudini, a volte con gruppi piccolissimi. E’ necessario portare l’Annuncio a tutti, celebrando, vivendo con le persone, condividendo i loro momenti, sia tristi che gioiosi. La frazione del pane, l’eucarestia, non può ridursi a mera azione simbolica; deve essere fonte della condivisione reale e concreta, altrimenti, sì, corriamo il grave pericolo di ripetere solo dei riti che oggi non avrebbero più niente da dire all’uomo contemporaneo.
Desideriamo che la nostra comunità CRIC in Brasile non perda il suo aspetto locale, come lo pensava Dom Gréa: una casa maggiore, centrale, la casa di tutti, e all’intorno i piccoli priorati, piccole comunità dedicate al ministero e traducendo in pratica la vita fraterna nelle sue forme più differenti.
Dom Gréa parlava di digiuni e astinenze, ma mai come fine a se stesse. Se oggi lui vivesse qui in mezzo a noi non avrebbe difficoltà a riconoscere ed accettare che tutte queste pratiche sono forme della condivisione: digiunare per condividere l’alimento con chi non ne ha; praticare l’elemosina non come atto liberatorio del nostro superfluo, ma come segno concreto di fraternità, di vera compassione con i nostri simili esclusi dalla società, dal convivio, dal gioire del creato.
E poi la preghiera, tanto personale come comunitaria, è espressione di comunione di intenti, di reciproco affetto tra noi, di sintonia col mistero pasquale di Gesù che si prolunga nelle comunità cristiane.
Infine una domanda: noi CRIC viviamo tutto questo? No, ma ci proviamo, ogni giorno, coscienti che la bontà del Signore non si misura in base ai nostri meriti; piuttosto Lui la riversa su di noi per la sua infinita misericordia.
A nome della comunità brasiliana, confratelli e laici, uomini e donne, il nostro caro saluto e grazie a quanti ci amano e ci hanno amato e sostenuto in tutti questi 32 anni di presenza CRIC in Brasile.

p. Tino Treccani – cric

Brazabrantes, 28 febbraio 2016.




 
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